Ombudsman è una parola che mi è sempre piaciuta, ma se volete potete chiamarlo "garante dei diritti dei lettori" o "public editor", se volete imitare Daniel Okrent del New York Times. Il problema è che nei giornali italiani (salvo Repubblica, se sbaglio corigetemi pure) è una figura inesistente. E, anche dove esiste, difficilmente può menar fendenti come ha fatto di recente Okrent, bacchettando pure editorialisti come Paul Krugman, Maureen Dowd e William Safire. Luca Sofri suggerisce un articolo, sul Corriere della Sera di ieri, per il quale sarebbe stato opportuno l'intervento di un ombudsman.
Sono d'accordo (il Corriere bara nella citazione delle fonti e altera le deduzioni già fatte da altri leggendo certi dati), ma sono anche convinto che spesso dovrebbe essere il direttore (o un caporedattore) a essere nei fatti il primo ombudsman. Se così non fosse, aumenteremmo il divario fra la casta dei giornalisti e i lettori, un crepaccio che già ora è difficile da colmare. Ma questo è un discorso diverso, che forse farò un altro giorno, anche con un esempio illuminante della mentalità attuale.
Per il resto, Sofri potrà anche aver ragione e la creazione dell'ombudsman in molti giornali italiani potrebbe essere considerato un progresso. Ma soltanto a due condizioni:
1. che sia accettato e rispettato dalla redazione, non sopportato;
2. che abbia un effettivo potere di intervento, senza limitarsi a un articoletto, nascosto nelle pagine interne, ogni due mesi, magari citando articoli già dimenticati dai lettori.
E questo vale anche per il public editor del New York Times o l'ombudsman di altri giornali americani.
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