Matthew Cooper, per i due o tre che non lo sapessero, è il giornalista di Time che ha accettato di testimoniare davanti a un grand jury che gli aveva chiesto il nome della fonte d'informazione confidenziale (Karl Rove, secondo quasi tutti) che gli aveva fornito una serie di notizie su un'agente della Cia, Valerie Plame. Cooper ha detto di aver testimoniato perché era stato in qualche modo liberato dal vincolo dalla stessa fonte riservata (al grand jury Cooper non avrebbe comunque fatto alcun nome) e dopo che Time aveva accettato di consegnare alcuni documenti in possesso del giornalista. Diversamente da lui si erano comportati Judith Miller (finita in carcere) e il New York Times, mentre un terzo giornalista, Robert Novak, il primo a scrivere la notizia della Plame, non è mai stato coinvolto nel caso giudiziario, forse perché da tempo ha collaborato con l'autorità giudiziaria. Ho due domande (per la prima non conosco la risposta, per la seconda posso azzardarne una):
1. Esiste negli Stati Uniti una norma che obbliga il giornalista a mantenere il segreto sulla fonte d'informazione confidenziale (cosa diversa dalla norma - individuata solitamente in un corollario al Primo emendamento alla Costituzione - che invece dovrebbe permettere al giornalista di opporre il segreto all'autorità giudiziaria)?
2. Che cosa potrebbe accadere in Italia al giornalista che riveli fonti d'informazione confidenziali?
Mentre attendo una risposta alla prima domanda (vorrei evitare lunghe ricerche, sperando che qualcuno ci abbia pensato prima di me), provo a darne una alla seconda. In Italia a Cooper non sarebbe accaduto nulla, perché ha detto di non aver rivelato il nome di alcuna fonte confidenziale, ma che cosa sarebbe invece potuto accadere al giornalista che avesse obbedito in toto all'ordine di disvelamento? In linea teorica non avrebbe rispettato un paio di norme. La prima è l'articolo 2 della legge sull'ordinamento della professione di giornalista, la 69 del 3 febbraio 1963: "Giornalisti e editori sono tenuti a rispettare il segreto professionale sulla fonte delle notizie, quando ciò sia richiesto dal carattere fiduciario di esse". E tutto questo a prescindere dalla discussione se quel testo indichi un obbligo di legge senza sanzione o sia una mera prescrizione che può avere soltanto effetti deontologici. Il giornalista avrebbe violato anche la Carta dei doveri del giornalista, che prescrive: "Nel caso in cui le fonti chiedano di rimanere riservate, il giornalista deve rispettare il segreto professionale e avrà cura di informare il lettore di tale circostanza". Sarebbe stato inevitabile, quindi, sempre in linea teorica, sottoporre quel giornalista a procedimento disciplinare e individuare in quale modo procedere nei confronti dell'editore (il caso di Time è un ottimo paradigma) per la violazione dell'articolo 2 della 69. In linea teorica, perché dal punto di vista pratico al 99 per cento non sarebbe accaduto nulla.
Questa risposta lascia ancora spazio a qualche riflessione.
La prima - meritevole di approfondimenti, se qualcuno vuole cimentarsi - è sul contrasto irrisolto all'interno della normativa italiana fra l'obbligo imposto al giornalista da una legge dello Stato di non rivelare la fonte d'informazione confidenziale e la piccola possibilità, lasciata aperta da un'altra legge dello Stato (l'articolo 200 del codice di procedura penale), di obbligare il giornalista a rivelare quella fonte. Così può accadere che, in uno stesso caso, una legge costringa il giornalista a tacere e un'altra (quasi) costringa il magistrato a farlo parlare.
La seconda riguarda una possibile obiezione: se la stessa fonte confidenziale avesse liberato il giornalista (cosa non fatta nei confronti di Cooper) anche dall'obbligo del segreto sul suo nome davanti a un grand jury o a un Tribunale in generale, dove starebbe la violazione, di legge o deontologica che sia? Il fatto è che la confidenzialità delle fonti o esiste a 360 gradi o non esiste. Se il giornalista è svincolato può e deve scrivere il nome della fonte anche sul giornale, in ossequio al principio che le fonti, se possibile, non devono mai essere anonime. Difficile pensare che ci possa essere un segreto professionale a intermittenza.
La terza riguarda il diverso comportamento tenuto da due ottimi giornalisti (Cooper e la Miller, nonostante la giornalista del NYT fosse inciampata in qualche trappola sul caso delle armi di distruzione di massa in Iraq) e da due dei principali editori americani, il New York Times e Time. Il Times ha difeso la linea dura della propria giornalista, affermando che si trattava di una questione di principio, alla quale non si poteva derogare se non aprendo un fronte che avrebbe permesso ai procuratori di chiedere indisciminatamente ai giornalisti di rivelare qualsiasi fonte; il Time, invece, pur affermando lo stesso principio, ha scritto testualmente: "The same Constitution that protects the freedom of the press requires obedience to final decisions of the courts and respect for their rulings and judgments". Uno scontro fra principi che, forse, non sarà mai risolto.
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