Il primo titolo di questo post era "Duello a distanza". Non è vero, non è un duello, è un confronto (non cercato) e la differenza non è da poco, anche se molti titolisti italiani avrebbero comunque preferito "duello", con la giustificazione che «sarà anche impreciso ma fa più effetto». Si parlerà qui di fonti confidenziali che negli articoli restano anonime, un argomento negletto dalla stampa e dai mass-media italiani, grandi o piccoli che siano. Io sogno un giornale italiano nel quale qualcuno spieghi perché in un articolo, a pagina 1 o a pagina 37, vengono usate fonti anonime. Se qualche giornalista pensa che questo ridurrebbe la sua libertà, si sbaglia di grosso, ridurrebbe soltanto la sua possibilità di sbagliare. Il motivo dovrebbe essere chiaro, ancor più chiaro dal confronto fra due grandi giornali americani come il New York Times e il Washington Post. Non è che da noi non vi siano articoli o inchieste scritte bene, con l'uso di fonti anonime soltanto quando è necessario, è che sono diamanti nella palude. E manca quasi completamente il dibattito sull'uso delle fonti anonime. O meglio: delle fonti confidenziali che non vengono rivelate (mi auguro che le fonti completamente anonime non vengano mai utilizzate).
L'argomento è il caso di Bob Woodward, il giornalista del Washington Post che ha detto allo "special counsel" Patrick Fitzgerald che sapeva del ruolo nella Cia di Valerie Plame prima di chiunque altro. Se questo dia o non dia una mano all'unico accusato da Fitzgerald di aver rivelato informazioni segrete, ossia I. Lewis "Scooter" Libby jr., ex capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney, è un fatto che qui è secondario.
Mario Tedeschini Lalli ha parlato tre giorni fa del modo - inconsueto per l'Italia - con il quale il Washington Post ha trattato vicende e polemiche sul suo giornalista. Ma i mass-media americani non si sono limitati a questo: ieri il Washington Post ha scritto, nella sezione dedicata agli editoriali, un articolo nel quale difende l'uso di fonti confidenziali anonime. Dice che dovrebbero essere il più limitate possibile, che i giornalisti dovrebbero spiegare perché non scrivono nome e cognome del loro informatore, ma dice anche che, senza quel tipo di fonti, Woodward (insieme a Bernstein) non avrebbe scritto del Watergate e, più recentemente, il Washington Post non avrebbe scritto delle prigioni segrete della Cia fuori degli Stati Uniti. E conclude: "if potential sources come to believe that they cannot count on promises of confidentiality, more than the media will suffer". Ho trascritto l'articolo per quando sparirà dall'archivio e lo potrete leggere qui).
L'articolo sul New York Times è stato scritto dal Public editor (o Ombudsman, se preferite chiamarlo così), Byron Calame. Ovviamente non fa riferimento al caso di Woodward, ma parla del NYT. Parla delle regole che il giornale ha reso sempre più strette e cita alcuni casi in cui sono state rispettate e altri in cui non lo sono state. Ve lo immaginate il Corriere o la Sentinella di Forlimpopoli (non me ne vogliano gli abitanti di Forlimpopoli) che ospitano articoli del genere? L'esperimento del garante dei lettori era stato tentato da Repubblica, esiste ancora quella figura? Il fatto è che da noi quasi ci si vergogna a dire: «Ci siamo sbagliati». Non che sbagliarsi debba diventare un punto d'onore, ma ammettere l'errore è segno di un intelligenza maggiore rispetto a chi non lo fa.
Daily Kos è piuttosto sarcastico nei confronti del New York Times ma - appartenendo alla stessa cultura giornalistica - può permettersi di esserlo molto più di quanto potrebbe permetterselo la maggior parte dei giornalisti italiani, per i quali due regolette introdotte di recente nel giornale di New York suonerebbero difficili da accettare. Calame ricorda la prima di quelle regole, introdotta nel febbraio 2004 dopo il caso di Jayson Blair: "Before a confidential source makes it into the paper, at least one editor has to know the source's name". Quanti di noi considererebbero inaccettabile dire a qualcun altro, pur di nostra scelta, il nome di una fonte confidenziale? Mi verrebbe da chiedere anche quanti Jayson Blair lavorano, tranquilli e a volte stimati, in grandi giornali italiani, ma andrei fuori dai binari che ho fissato per questa entry. La seconda regola, scritta dal direttore Bill Keller in giugno, dice che "Readers are to be told why The Times believes a source is entitled to anonymity - a switch from the previous practice of stating why the source asked for it".
Non è tutto oro quel che luccica e anche il Public editor non è riuscito a trovare molti casi nei quali i giornalisti del New York Times abbiano scritto frasi come "two Pentagon officials who have worked on the project and were granted anonymity", invece di un classico "who spoke on condition of anonymity", ma è comunque un passo sulla Luna rispetto alle passeggiate intorno a casa di buona parte del giornalismo italiano. Anche in questo caso ho trascritto l'articolo del Times che, quando non sarà più accessibile dall'archivio, potrete leggere qui).
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